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Silvia Castellani

Tra l'essere e il fare, c'è di mezzo il pensare

L’amore rivoluzionario di ANNARITA ALVIANI

Una breve premessa mi pare doverosa, non foss’altro per l’”importanza” del pezzo che segue, che non rispetta i canonici tempi da blog, in particolare di questo blog, dove la lettura non occupa solitamente più di dieci minuti. Allora, come mai Annarita Alviani con tutte le sue parole è qui? E’ qui perché l’ho invitata io. L’ho invitata ancora prima di avere letto il suo scritto, nella consapevolezza del fatto che siamo donne diverse, con pensieri diversi, che non di rado discutono dalle loro diverse posizioni. Annarita ed io possiamo essere, come un amico ci ha molto opportunamente suggerito nell’ambito di un simpatico diverbio facebookiano, avversarie, mai nemiche. Perciò, sulla fiducia, sulla stima e nella convinzione che tra i diritti fondamendali dell’uomo ci sia il diritto alla “testimonianza” personale, ecco il libero contributo, su questo libero blog, di Annarita Alviani, che ringrazio di cuore per essere qui, riempiendomi di stima perché sono convinta che la diversità tra donne che nonostante la stessa collaborano e si rispettano sia, ad oggi, un significativo atto rivoluzionario. Per chi ha tempo, per chi ha voglia, per chi crede che sia importante ascoltare l’Altro.


Guardò l’orologio quasi di nascosto e si rese conto che doveva andare, si era fatto tardi. Non poteva restare oltre. Succedeva sempre così, che sul più bello doveva andare via, lasciando sempre le cose a metà; non riusciva mai ad arrivare alla fine di niente, ma non poteva stare fuori oltre una certa ora. Senza salutare, si alzò e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Si ritrovò per strada; doveva decidere subito se passare nelle vie interne, o imboccare la via che si ricongiungeva al corso principale della città. Dove avrebbe dato meno nell’occhio? A quell’ora del sabato sicuramente avrebbe incontrato tanta gente, ma poteva essere andata al cinema. Da sola? Mah! Poteva aver lasciato delle amiche… Si avviò per la via principale, non da quella che passava per l’interno: viuzze e scale dove, ad eventuali incontri di amici dei suoi, sarebbe stato più difficile dare una giustificazione. Certamente le avrebbero chiesto cosa ci facesse a quell’ora lì e lei che cosa avrebbe risposto? Avrebbe balbettato risposte incoerenti, facendosi rossa, e tutto questo sarebbe stato riferito ai suoi non appena quel “fantomatico” incontro ne avesse avuto l’occasione.

Si avviò per la strada che portava al Corso. Avrebbe dato un’occhiata alle vetrine e, nel frattempo, avrebbe guardato le locandine dei cinema per prepararsi alle domande dei suoi. Diligentemente leggeva sempre tutte le trame dei film che davano e anche le recensioni. Qualche volta andava a vedere il film, molti se li faceva raccontare. Con la testa un po’ per aria, guardando un po’ il passeggio serale e un po’ pensando a quanto fosse stata interessante quella riunione.

Ma come era possibile che i suoi non capissero che non facevano altro che preparare l’avvento di una società migliore? Si discuteva di tutto e su tutto. Lei imparava tante cose, certo non aveva un ruolo di primo piano: quello era riservato ai maschi che davano le linee guida, che preparavano manifestazioni e assemblee nelle scuole, che tenevano i “ collettivi quadri” dove, appunto, venivano formati i “quadri”.

Quella sera C. aveva tenuto una lezione sul XXIV capitolo del Capitale. Una roba difficilissima: lei di Marx aveva letto il Manifesto, ma aveva letto anche il libretto rosso di Mao e le tesi di Bakunin, oltre a leggere le riviste che arrivavano al Movimento e qualche scritto di Stalin.

La maggior parte delle ragazze, tranne un paio, ma quelle erano le donne dei capi, non avevano mai tenuto un “collettivo quadri”: stavano lì a scrivere tazebao, a ciclostilare i volantini che sarebbero stati distribuiti nei giorni seguenti, scritti dai membri della segreteria.

Si stava anche iniziando a preparare la grande manifestazione degli studenti medi, collegata a quella degli universitari. Era necessario indire assemblee nelle scuole e costituire delle commissioni. Lei avrebbe voluto essere scelta, però il timore delle conseguenze a casa la sopraffaceva: i suoi minacciavano di non mandarla più a scuola, se avesse continuato a frequentare quella gentaccia. La sua vita era difficile, sempre sotterfugi, sempre bugie, sempre con il cuore in gola, ogni volta che rimetteva piede dentro casa si sentiva soffocare.

L’atmosfera era plumbea, il padre sempre torvo e la madre le puntava uno sguardo accusatore, facendola sentire responsabile anche dei litigi che lei e il marito facevano. Tutto per colpa sua. Erano arrivati a farle un processo. Un vero e proprio processo, dove però lei non aveva nessun avvocato difensore: un’intera famiglia che le puntava il dito contro: zii, zie. Tutti a dirle che era una scellerata, lei aveva cercato una parola dalle cugine, ma quelle non parlavano e del resto avevano anche loro dei bei problemi e, se avessero detto anche solo mezza parola in suo favore, sicuramente gli si sarebbe ritorta contro. Aveva affrontato quella corte marziale a testa alta, ma con un ’ansia che le attorcigliava lo stomaco ed anche il cervello. Aveva cercato di difendersi esponendo le sue idee… Non capiva, non poteva far sì che le sue idee si realizzassero: in fondo cosa chiedevano? Chiedevano salari più equi, chiedevano il diritto ad uno studio che non fosse nozionistico, chiedevano di essere rispettati come studenti, volevano che finisse la guerra nel Vietnam, volevano che il Cile tornasse  libero e non un satellite degli USA, volevano case e lavoro per tutti, volevano che le università non stessero più in mano ai baroni, volevano una rivoluzione culturale come quella cinese. Bisognava prendere a modello la grande Cina, dove donne e uomini erano considerati eguali e dove tutti lavoravano e mangiavano: e gli intellettuali erano contadini e i contadini erano intellettuali, in uno  scambio di ruoli che era  molto proficuo per il paese e, soprattutto,dove le donne erano considerate l’altra metà del cielo.

Un profluvio di improperi le si era rovesciato addosso: sarebbe stata la colpevole del trasferimento in Sardegna di suo padre. Lei, la rovina della famiglia, aveva iniziato a piangere singhiozzando talmente forte che si sentiva soffocare: nessuna indulgenza, o la smetteva o l’avrebbero tolta dalla scuola. Questa minaccia le pendeva sul capo e lei promise: promise che non sarebbe più andata lì: alla sede. Promise che non avrebbe più incontrato nessuno dei “compagni”, tanto come faceva a incontrarli se neanche la facevano uscire per andare sul viale dove stavano tutti, dove si incontravano per stare insieme e dove c’era anche lui, che le piaceva tanto, ma che neanche la guardava? Invece, poi, non aveva mantenuto le sue promesse e rischiava ogni giorno botte e ritiro dalla scuola.

Intanto, con questi pensieri nella testa era arrivata davanti alla piccola chiesa. Si sentì chiamare: erano due amiche di sua madre, due colleghe; salutò educatamente, ma affrettò il passo, facendo finta di interessarsi alla vetrina della ferramenta e, proprio lì, vicino alla vetrina, vide due ragazzi abbracciati sul portone. Guardò fisso perché aveva riconosciuto lui e, certo, era proprio lui, e quella spilungona era la sua fidanzata. Sentì il cuore rombarle nel petto e poi improvvisamente come se si fosse fermato. Il sangue le defluì dal viso e le gambe le tremavano. Forse aveva fermato lo guardo su di loro un minuto più del dovuto, perché lui si voltò a guardarla. Abbassò il viso e continuò a camminare, lo sapeva che stavano insieme, li aveva visti tante volte, ma il dolore di quella sera era stato feroce.

Arrivò a casa trafelata e la madre non le disse nulla, non l’accolse con la solita gragnuola di domande, la guardò inquisitoria come al solito, ma non disse nulla. Strano questo silenzio, pensò. Non si era però resa conto di avere il viso stravolto: lo vide solo dopo quando andò in bagno per lavarsi le mani e si guardò allo specchio: era bianca  come un cencio, gli occhi spenti. Chissà cosa aveva pensato sua madre. La cena si svolse nel più assoluto silenzio e lei se ne andò a dormire.

La mattina dopo a scuola ci sarebbe stata l’assemblea e a lei avevano dato il compito di fare un intervento, finalmente, lo doveva preparare, l’avrebbe fatto la mattina dopo: adesso proprio non poteva,sentiva troppo male dentro.

L’assemblea andò benissimo, in tanti avrebbero partecipato allo sciopero, il suo intervento fu mediamente applaudito. Bene, per lo meno non si era impappinata. La prossima volta, forse, l’avrebbe tenuta lei l’assemblea. Adesso era andata meglio così. Un intervento passa inosservato, la preside mica poteva segnalare tutti quelli che intervenivano. Certo, tenere un’assemblea sarebbe stata la conferma  di un riconoscimento come vera compagna. Ma come si passa dalla scrittura dei tatzebao al rango di “oratore”, da angelo del ciclostile a capo di commissioni? A quadro? Si impegnava a partecipare a tutte le riunioni, e cercava di farsi un’opinione di ogni avvenimento che veniva discusso; era molto silenziosa quando si trattavano grandi argomenti, del resto stava soltanto allora leggendo i classici del marxismo leninismo. Alcune compagne, due tre erano a capo di commissioni, e avevano anche tenuto dei “collettivi quadri” qualcuna più piccola di età di lei, che strano. Lei era sempre un membro. Forse perché erano le donne dei capi. Erano molto più agguerrite di lei, ma loro non avevano il problema di sovraesposizione..

Molti in sede la guardavano tra la commiserazione e il sarcasmo, lei non batteva ciglio. Non voleva impietosire nessuno e se non la ritenevano all’altezza, non avrebbe elemosinato  nulla.

Quando morì  Roberto Franceschi si trovò la mattina a dover distribuire i volantini preparati durante la notte e non si tirò indietro anche se aveva la certezza matematica che sarebbe arrivata la polizia. Roberto Franceschi era stato ferito gravemente da un colpo di pistola di un poliziotto, perciò sapeva bene che qualsiasi cosa fosse stata fatta, la polizia sarebbe intervenuta. Quella mattina sapeva a cosa andava incontro: rischiava  di vedersi comparire suo padre davanti e, con le gambe che le tremavano, distribuì i volantini sullo scalone del liceo.

La salvò l’interrogazione di greco. Un suo compagno di classe prese il suo posto, perché altrimenti quel giorno, se non si fosse presentata, sarebbe toccato ad un altro e nessuno era preparato.

Arrivò la polizia proprio nel momento in cui lei si accingeva a varcare il portone del Liceo. Il padre aveva la faccia nera e gli occhi che mandavano lampi. Capì dallo sguardo che a casa sarebbe successo il finimondo, ma lei era innocente! Portarono i suoi compagni in questura perché imputati di diffusione di notizie false e tendenziose e di violazioni di leggi sulla stampa, perchè Roberto Franceschi ancora non era morto e perchè non avevano scritto “cicl. in prop.” sui volantini…

Quel pomeriggio non si azzardò ad uscire di casa, le aveva prese e aveva un occhio pesto perché per sfuggire a suo padre aveva battuto contro lo spigolo di una porta. Le telefonarono per sapere se potesse partecipare ad una riunione straordinaria, ma come poteva fare? Suo padre se soltanto avesse chiesto di uscire, l’avrebbe ammazzata di botte. Certo era strano, le aveva telefonato Giuseppe, un ragazzo che da poco frequentava la sede e che non era studente: lavorava ad una pompa di benzina. Ma non era quello il problema, il problema era salvarsi da altre botte e disse che Giuseppe stava in prima A e voleva le sue traduzioni dei classici. Difficile che sua madre l’avesse bevuta, però…….

Non pensò più a Giuseppe, neanche ne ricordava il viso, quando un paio di giorni dopo se lo trovò davanti la scuola e volle per forza accompagnarla e le chiese di uscire il pomeriggio. Trasecolò.. balbettò una scusa, quello insisteva e lei allora gli disse apertamente che non voleva uscire con lui. Non le piaceva. Le piaceva un altro ragazzo. Non immaginava certo cosa si sarebbe scatenato: fu accusata di essere una borghese reazionaria! Il suo rifiuto era stato riferito, dall’innamorato deluso, ai membri del direttivo che non appena rimise piede in sede la sottoposero a un vero e proprio interrogatorio: perché non voleva fidanzarsi con Giuseppe? Cosa non aveva che andava per lei? Era troppo superba per rifiutare così un compagno operaio! Ecco cos’era che non andava. Lo sapevano bene che lei preferiva quelli che stavano dall’altra parte del viale, era una borghese.

Non era una vera compagna. Forse avrebbero preso delle misure di sicurezza contro di lei. Tutti i capi avevano le donne all’interno del gruppo, nessuno di loro stava con ragazze “esterne” e tutte le donne dei capi avevano ruoli importanti. C’erano stati dei problemi perché uno di loro aveva chiesto a qualcuna prestazioni, senza esserne il fidanzato, in un momento di solitudine. E se in un primo tempo le era parso che tutti avessero preso le parti della “compagna”,  mettendo in quarantena il “compagno”, li aveva poi sentiti dileggiarla e ridere di lei  e dei suoi comportamenti “antirivoluzionari” e borghesi, perché si era andata a lamentare, forse da un altro del direttivo. I compagni vanno comunque aiutati!

L’intera questione aveva assunto ai suoi occhi tutto un altro aspetto: non le andava proprio a genio quello che sentiva! Le loro “donne” fecero altrettanto e la poverina si ritrovò compatita, anche se tutti le sorridevano.

E da lei mandarono un emissario per convincerla ad accettare Giuseppe: ritenevano la compagna molto persuasiva, in effetti aveva un fare dolce ma insinuante, non le stava granché simpatica, sempre troppo sorridente e troppo accondiscendente rispetto a tutto quello che dicevano gli altri e le disse che una persona intelligente come lei non poteva rifiutare il compagno operaio Giuseppe! Il suo fidanzamento con lui sarebbe stato “rivoluzionario” e lei finalmente sarebbe stata considerata una vera compagna. Tutti si interessavano al suo fidanzamento perché la vera rivoluzione incominciava proprio da lì, dalla sfera personale. I veri rivoluzionari non separano il personale dal politico, ma ne fanno un unicum!

Non poteva proprio, lui era basso, aveva le unghie sporche, tutte nere di grasso, e i capelli unti; un odore acre di sudore e non sapeva neanche parlare bene, farfugliava e non sapeva dire due parole in italiano corretto. Non voleva neanche parlargli, figuriamoci pensare a baciarlo! E poi, diamine, faceva il benzinaio e di che avrebbero parlato, del prezzo della benzina? Non se ne poteva fare niente. “Giuseppe si trovi un’altra!”

Se ne andò decisa a mantenere la posizione “personale”, strettamente personale .

Certo la vita nei giorni seguenti fu difficilissima, sentiva l’ostilità dentro casa, fuori casa, e iniziò a provare una sorta di avversione per  tutti. Uno che forse faceva da portavoce, un pomeriggio incontrandola mentre tornava da scuola, le disse che Giuseppe era una grande opportunità per mostrare quanto fosse veramente comunista e che non poteva ambire a nessun altro, perché non dava segno di essere una vera rivoluzionaria. Forse dopo, se lei si fosse fidanzata con Giuseppe, sarebbe cambiata la posizione nei suoi confronti e magari qualcuno dei capi avrebbe anche potuto pensare di fidanzarsi con lei. Anche se non era proprio alla loro altezza! Lei se ne ebbe a male, ma non recedette dalla sua posizione e fece benissimo, perchè di lì a qualche tempo arrestarono Giuseppe per rapina a mano armata!

Per fortuna che la scuola stava finendo e lei se ne sarebbe andata con le cugine al mare. Aveva bisogno di libertà, di andare a ballare, aveva bisogno di parlare di ragazzi, di vestiti, di film, di leggere altro da Lenin o Marx, Pekin Information  e la rivista trimestrale; voleva leggere le poesie, voleva leggere Emily Dickinson, Jane Auste, Thomas Mann il suo amato Balzac; voleva ascoltare De Andrè e Battisti e i Beatles e i Rolling Stones, e non più le canzoni di lotta, non voleva più leggere, voleva vedere i film per davvero e non leggerne soltanto le trame..Con i compagni e le compagne della sede non si parlava mai del resto del mondo, tutto era considerato borghese, dicevano che la cultura del novecento non aveva prodotto nulla, che Battisti era fascista, voleva parlare di ragazzi e voleva cercare di dimenticare lui, quello che neanche la guardava, voleva fare in modo che la guardasse e si sarebbe comperata le gonne corte, i trucchi e le scarpe con il tacco.



"Annarita Alviani, profilo"

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This entry was posted on mercoledì, dicembre 22nd, 2010 at 10:22 and is filed under Senza categoria. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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