RSS

Silvia Castellani

Tra l'essere e il fare, c'è di mezzo il pensare

Posts Tagged ‘destino’

Il destino di una rosa, destino

No Comments »

gennaio 27th, 2016 Posted 19:52

A volte io penso che c’è un destino scritto per ognuno di noi. E il destino fai fatica a contraddirlo.

“Il destino di una rosa” – Scatto realizzato a Cattolica nell’estate del 2014

photo silvia castellani

Incendi celesti

No Comments »

marzo 26th, 2015 Posted 13:25

Mi sono alzata con questo pensiero, come se lo vedessi stampato a caratteri cubitali dritto davanti a me: “Il buongiorno si vede dal destino”.
E nel mio destino – ho pensato – ci sono grandi passioni, fuochi che bruciano nella mia mente. Che sembrano soffi di drago.

Titolo della fotografia “Nuvole di drago” – Dolomiti bellunesi, 2015

Nuvole di drago


La pazzia di essere ricordati

No Comments »

giugno 30th, 2011 Posted 17:49

La Pazzia - Utrillo

E’ una storia troppo bella per tacerla. E’ una storia che non può lasciare indifferenti perché vi si mescolano l’arte, l’amore e i gesti feroci, i soli che forse valgono la pazzia di essere ricordati. C’è un destino in questa storia che unisce due vite, legate molto strette e molto oltre al sentimento proprio dei legami di sangue. C’è un destino che lega una madre e un figlio. E c’è una città, che fa da sfondo alle loro vicende, che se non si fossero svolte in quella esatta cornice, oggi, è pressoché certo, questa storia non esisterebbe. La madre si chiama Marie-Clèmentine Valadon e cresce “libera” sulla Butte di Montmartre, a Parigi. Hugo, descrivendo nei Miserabili la figura dello ’scugnizzo’ parigino, scrive: “Non aveva casa né pane, non aveva fuoco né amore; era però contento perché era libero”. Sulla Butte la conoscono tutti, così come conoscono la di lei madre, spesso ubriaca. Poco più che bambina, Marie-Clèmentine va a lavorare al circo. Ha provato a fare la sarta, ma non ha funzionato. Lei disegna, lei è bella, lei è cresciuta “libera” e allora va bene il circo. Lì può esibirsi, può esprimersi, lì ci sono occhi che la guardano, mani che la applaudono. Disegna animali, le piacciono i cani, i gatti e i cavalli. Anche i fiori. E’ a causa di una rovinosa caduta che finisce presto  la sua carriera da circense e allora, a sedici anni, sulla Butte, terra di artisti, terra in fermento, terra di speranze, inizia a fare la modella. Forse inizia a fare la modella sedotta dall’amore fisico, oppure succede il contrario, è facendo l’amore forse che si ritrova a fare la modella. Un giorno decide di andare a mostrare i suoi disegni a Puvis de Chavannes che di anni ne ha cinquantotto, ma ha anche uno studio a Neuilly ed è un pittore acclamato.  Lui la prende con sè, ma la loro relazione non dura molto. Il maestro successivo è Pierre-Auguste Renoir che ha poco più di quarant’anni ed è possibile che i due si amino davvero. Però più tardi lei dirà: “Renoir, un vrai peintre, mais pas de coeur!” Un vero pittore, ma niente cuore. E’ lui, infatti, che a un certo punto la allontana, su richiesta della fidanzata che li scopre in atteggiamenti inequivocabili. Renoir obbedisce, manda via la modella. E’ il 26 dicembre del 1883 e Marie-Clèmentine dà alla luce Maurice. Non si sa chi sia il padre. I candidati alla paternità sono: Rodin, Renoir, lo scultore Bartholomè, il veneziano Zandomeneghi e lo studente catalano Miguel Utrillo y Molins. E’ quest’ultimo che otto anni dopo, una sera in cui ancora si discute di chi sia figlio il piccolo, si alza in piedi e proclama: “Per me sarebbe un vero onore poter firmare col mio nome l’opera di uno di questi grandi maestri!” Maurice è solo un bambino e gli è proibito entrare in casa prima che sua madre abbia terminato le sue “sedute d’amore” con gli occasionali amanti. Se ne sta seduto sul marciapiede, la testa stretta tra le mani. Maurice è solo un bambino, ma è un bambino sofferente, ha forti  attacchi di epilessia che vengono placati con del vino rosso. Maurice cresce così sulla Butte, “libero” come sua madre.  Da adulto, alcolizzato, il suo nome viene ridicolizzato in Litrillo e anche gli sfruttatori di prostitute che oziano a Pigalle lo deridono. Nella fase più acuta del suo male arriverà a bere dell’acqua di colonia e della trementina che usava per stemperare i colori. Maurice è furioso. Gli amici del “Lapin agile” che sono Russeau, Modigliani e Picasso, quando lo vedono cadere ubriaco, si affrettano a legarlo con delle corde al tavolo per evitare che al risveglio spacchi tutto. Viene ricoverato più volte in case di cura per essere disintossicato e sarà proprio un medico, dopo averlo dimesso dalla clinica in cui era andato a disintossicarsi, che consiglierà alla madre di tenerlo occupato con la pittura. Maurice ha diciannove anni. Scrive Francis Carco: “Chiedeva ai suoi quadri solo una consolazione ai suoi mali. Erano un rifugio, una compagnia nei giorni brutti, un sollievo, una speranza quotidiana. Ecco perché quell’artista non può essere collegato a nessun altro”. La madre, che Toulouse-Lautrec ribattezzerà Suzanne e che era riuscita a farsi un nome come pittrice soprattutto grazie a Edgar Degas, costringerà quel figlio alla tela, lo inciterà, lo incoraggerà e lo aiuterà a diventare Utrillo, quel grande pittore senza pari che ha dipinto “La Pazzia”. Morirà diciassette anni dopo la madre, colmando così quella differenza che li aveva separati all’inizio.

Ho appreso questa storia da un bellissimo libro di Corrado Augias che si intitola “I segreti di Parigi” che vi consiglio di leggere.

Questo mondo veloce che si incarta da sè

No Comments »

febbraio 22nd, 2010 Posted 17:41

Il jolly nella manica - foto di Silvia Castellani

Sto facendo una seria riflessione che deriva dal fatto che in questo momento della mia vita, una volta in più, sto vagando da un luogo ad un altro in cerca di una degna opportunità lavorativa. La cosa sconcertante è che chi ti esamina è posseduto dalla necessità di vedere in cinque minuti se e quanto vali. Ciò è, se non impossibile, quantomeno improbabile. Perché il successo dell’incontro fugace è determinato da moltissimi fattori, anche inconsci che in quel breve contesto si incontrano o si scontrano così veloci che finisce che la scelta è determinata da una frase non detta o detta che sull’interlocutore fa presa per un motivo quasi sempre scemo. Magari ti scappa detto che suoni bene la chitarra e l’esaminatore aveva un sogno nel cassetto: diventare una rock star. Dunque è veramente un salto nel buio. La cosa però che mi affascina in un certo qual modo e che sfugge a molti è che non si ascolta e non si osserva bene in quel tempo misero che si cerca di recuperare sulla pelle altrui facendo finta di non ricordarsi che non sempre una Ferrari è la scelta più azzeccata. Soprattutto in un’ottica di lungo periodo., se la posta in gioco è alta e la partita complessa. Ecco, io sono un diesel consapevole delle proprie potenzialità che si manifestano lungo la strada. Allora io lo vedo, puntualmente, negli occhi di chi mi esamina che, di fronte alla mia iniziale emozionata compostezza, si chiede “ma questa può farcela?” però sarebbe assurdo rispondere a un pensiero, tralasciando le parole dette che tuttavia, solo percepite, lasciano il tempo che trovano. Un tempo falso che pretende fiumi di parole come cantavano i Jalisse o forse facce giuste che la raccontano. Io non ho proprio la faccia, come si usa dire per definire quel primo approccio sicuro e un po’ spavaldo e soprattutto ho parole che seguono un tempo preciso, quello dei pensieri ponderati che si trasformano in parola pensata. E’ così grave, questo? No. Non è grave, ma è seriamente fuori da un tempo piccolo che inganna un po’ tutti, che mischia le carte e si incarta da sè con il riflesso che quasi sempre le aspettative finiscono deluse e i punti accantonati a favore di un impatto forte ma scarso di contenuto.  Di fatto rimane che continuo a farmi esaminare, a scrivere, a credere che le dinamiche tritatutto possano cambiare, che un giorno faremo basta di comportarci come automi, che privilegeremo il senso alla fretta, che gli avatar e i robot non sostituiranno l’uomo, che in fondo sono tanti come la sottoscritta a voler recuperare la misura giusta, quella del percorso, della strategia e non del round all’ultimo sangue. E magari, al prossimo esaminatore dirò solo che da grande voglio fare la principessa. Chissà che non sia quello il suo sogno nel cassetto. E comunque la risposta è: posso farcela. E molto bene. Perché il mio destino mi ha regalato delle carte vincenti. Aspetto solo di sedermi al tavolo giusto.

La valigia di cartone

No Comments »

febbraio 12th, 2010 Posted 19:10

La valigia di cartone - foto di Silvia Castellani

E’ stato un amico, un artista affermato, una persona che stimo a consigliarmi di scrivere questa storia. Che non dovevo limitarmi a viverla, ma dovevo scriverla. Mi ha detto così riguardo a questa storia che ogni giorno, attraverso il passare delle stagioni, vivo. L’ha definita bella, commovente e antica perché è una storia che parte da lontano e si tramanda e viaggia perché vuole arrivare lontano. Vuole arrivare lontano per poi ritornare alle origini perché chi non se n’è mai andato, non può comprendere la gioia e l’importanza del ritorno. Eppure è ferma, ora, questa storia, apparentemente è un racconto fermo, ma forse è proprio nell’immobilità che tutto nasce.

Siamo in Francia negli anni Cinquanta e c’è un giovane uomo con una valigia di cartone. Ha lasciato l’Italia, il suo paese e la sua casa in cerca di lavoro e di fortuna. L’uomo farà poi ritorno a quella casa, a quel paese, a quei vicini e alle loro finestre perché è da lì che lui vuole guardare il mondo. Ma adesso quel giovane è in Francia con la sua valigia di cartone che può contenere poche cose, pochi effetti personali. Prima di partire, forse per paura di perderlo quel misero bagaglio, ha scritto il proprio nome ovunque, fuori e due volte dentro, perché sia chiaro e perché spera che qualcuno, se dovesse succedere un imprevisto, possa riportare tracce di sè. Al suo paese, a quei vicini e a quelle finestre da dove lui vuole guardare il mondo. Quell’uomo è un migrante e io all’epoca non sono ancora nata.

Io entro dopo in questa storia, alla fine degli anni Settanta, quando quella valigia di cartone non serve più. Apparentemente è inutile. L’uomo è tornato, ha smesso di viaggiare, o forse il viaggio si è solo interrotto perché lui ha trovato la sua fortuna. E l’ha trovata al paese. Ma quella valigia, piena di polvere e ormai inservibile è ancora lì e mi chiama. Nessuno oggi vorrebbe mettersi in viaggio con una valigia del genere. Soprattutto per andare lontano. Per esempio in Francia. Ma la valigia mi chiama e la mia anima in viaggio la ascolta e decide di portarla con sè. Ovunque vada. A me quella valigia serve. E’ il mio unico effetto personale. L’unico che valga la pena, un giorno lontano, di conservare perché riporti tracce di me, perché mi ricorda, ogni giorno, chi sono, da dove vengo e come voglio vedere le cose del mondo. So che la mia strada, parafrasando Jules Verne, porta a un destino più che a una destinazione e quella valigia è lì a raccontarmelo ogni momento. E’ un’opera d’arte, anche se nessuno avrebbe l’ardire di affermarlo. Quella valigia sono io. La valigia ora è esposta nel piccolo sottotetto dove vivo. E’ aperta e dentro non c’è niente. C’è solo quel  nome scritto a penna. E due iniziali nere, ripetute con il pennarello grosso. Le iniziali sono S e B. E c’è il nome per intero. Scritto in corsivo con una calligrafia elementare, ma molto curata. Perché è un gesto importante quella
scritta. E’ definitivo. Segna l’inizio del viaggio.

La valigia è piccola e il proprietario, l’abbiamo detto, ci fece un lungo viaggio. Andò in Francia negli anni Cinquanta in cerca di lavoro e
di fortuna.

S. B, il proprietario della valigia, mi ha lasciato  in eredità quel suo “effetto personale”, e io la vedo sempre, davanti a me, la scena in cui mi dice tienila, Silvia, non sei te quella che dice sempre che vuole  viaggiare?

E infatti, quando ho deciso di mettermi in viaggio,
me la sono portata dietro la valigia di cartone di S.B. La valigia è
aperta, ai piedi del letto a ricordarmi che posso andarmene quando voglio. Posso rimettermi in viaggio in ogni momento. E’ apparentemente vuota, quella valigia, ma in realtà è piena.

Ho intitolato l’opera d’arte: POVERO MIGRANTE CON VALIGIA PIENA DI
PERPLESSITA’

E ora vi chiedo, una volta in più, chi avrebbe l’ardire di affermare che quella valigia,
la valigia di S. B segnata con il pennarello nero, come una
marchiatura perenne, possa essere un’opera d’arte? Solo io, di certo,
perché “vedo” tutto quello che non c’è. Perché non serve. Quello che
serve, per viaggiare, è tutto lì. Quello che serve a una come me per viaggiare è tutto lì.

S. B era mio nonno. S. B in qualche modo sono anch’io. Boa Sorte.

C’est un ami, un artiste accompli, une personne que j’ai me conseilla d’écrire cette histoire. Je n’aurais pas dû me limiter à vivre, mais je devais l’écrire. Il m’a raconté cette histoire pour que chaque jour, par le passage des saisons, en vie. Il a appelé belle, émouvante et vieux parce que c’est une histoire qui a commencé il ya longtemps et a été rendue et en voyage, car il veut aller la distance. Il veut s’éloigner, puis revenir à l’essentiel, car qui a jamais vraiment disparu, ne peut pas comprendre la joie et l’importance de la déclaration. Pourtant, il est encore, aujourd’hui, cette histoire est apparemment toujours une histoire, mais peut-être c’est juste que tout est né dans le calme.

Nous sommes en France dans les années cinquante et il est un jeune homme avec une valise en carton. Il quitta l’Italie, son pays et sa maison à la recherche de travail et de chance.Il reviendra ensuite à la maison à ce pays, leurs voisins et leurs fenêtres, parce que c’est là où il veut voir le monde. Mais ce jeune homme est maintenant en France avec sa valise en carton pouvant contenir un certain nombre de choses, quelques effets personnels. Avant de quitter, peut-être par crainte de perdre que les bagages misérable, a écrit son nom partout, à l’extérieur et l’intérieur deux fois, et il espère qu’il soit clair que personne, si quelque chose d’inattendu se produit, peut porter des traces de leurs propres. Dans son pays, à ceux et celles à proximité de fenêtres d’où il veut voir le monde. L’homme est un migrant et moi ne sommes pas encore né à l’époque.

Après-je entrer dans cette histoire, dans la fin des années soixante, lorsque la valise en carton ne sont plus nécessaires. Apparemment, il ne sert à rien. L’homme revint, cessé de voyager, ou peut-être que le voyage a été arrêté parce qu’il a trouvé sa fortune. Et il a trouvé le pays. Mais la valise pleine de poussière et de devenir inutile et il est toujours m’appeler. Personne aujourd’hui ne voudrait Voyage avec une valise comme ça. Surtout pour s’en aller. Par exemple, en France.Mais la valise de m’appeler, et mon âme entend et décide de faire un tour à l’emmener avec lui. Partout où il va. J’ai besoin de cette valise. C’est mon seul effet personnel. La seule valeur d’un jour de suite, si nécessaire pour garder une trace de moi, car elle me rappelle tous les jours qui je suis, d’où je viens et comment je vois les choses dans le monde. Je sais que ma manière, pour paraphraser Jules Verne, conduit à un destin plutôt qu’une destination et que la valise est là pour me dire tout le temps. C’est une œuvre d’art, même si personne n’oserait dire. Cette affaire, c’est moi. L’affaire est maintenant exposée dans le petit grenier où je vis. Il est ouvert et à l’intérieur il n’y a rien. Il ya juste le nom écrit à la plume. Et deux noirs initial avec le gros feutre à plusieurs reprises. Les initiales sont S et B. Et il ya le nom en entier. écriture cursive avec un niveau élémentaire, mais très élégant. Parce que c’est un geste important qui
écrite. E ‘final. Il marque le début du voyage.

La valise est petite et le propriétaire, nous l’avons dit, nous avons fait un long voyage.Il se rend en France dans les années cinquante et la recherche de travail
de chance.

S. B, le propriétaire de la valise, elle lègue tous ses «effets personnels», et je vois toujours devant moi, la scène où je dis que le garder, Silvia, n’est-ce pas celui qui dit toujours qu’il veut Voyage?

En fait, quand j’ai décidé de Voyage,
J’ai l’écoulement derrière le carton valise, la valise est en SB
ouverte au pied du lit pour me rappeler que je peux partir quand je veux. Puis-je revenir sur la route en tout temps. Et «apparemment vide la valise, mais il est plein.

J’ai appelé: POVERO MIGRANTE CON VALIGIA PIENA DI PERPLESSITA’

Et maintenant je vous demander, une fois de plus, qui oserait dire que la valise,
le cas de S. B marquée avec un marqueur noir, comme un
marquage permanent, peut être une œuvre d’art? Seulement moi, bien sûr,
parce que je «vois» tout ce qui n’est pas là. Pourquoi ne pas nécessaires. Qu’est-ce
besoin de Voyage, tout est là.Qu’est-ce utilisé pour quelqu’un comme moi de Voyage est là.

S. B était mon grand-père. S. B en quelque sorte trop. Boa Sorte.

IL VIDEO del post QUELLO CHE VEDEVO

1 Comment »

gennaio 2nd, 2010 Posted 17:00

Inauguro il 2010 con una nuova trovata: il video del post intitolato:

“QUELLO CHE VEDEVO”

Quello che vedevo erano le mie orme sulla sabbia, un triste andare incerto. Le orme erano più grandi dei miei piedi o almeno così io vedevo. Poi ho avvertito le onde del mare e mi sono distratta. Mi sono girata verso la spuma e ho voluto bagnare i miei piedi. Le orme no, non potevano essere toccate, erano più in alto. Non le raggiungeva la spuma. La spuma non le raggiungerà mai le mie orme, ho pensato. Mi chiedevo se davvero quelle fossero le mie orme. Non sembrava, ma di lì ero passata solo io. Quello che vedevo. Non vedevo nessuno a piedi davanti a me finchè ho visto una barca di legno giallo e blu e un vecchio anche, con il cappello in testa, seduto sulla barca. Non era proprio un vecchio, era un uomo di mezza età. Sembrava cattivo allora ho fatto finta di niente ma lui mi ha chiamata ed era l’imbrunire. Non ci vado, ho pensato a testa bassa. Non mi fido. Vieni qua, ha detto lui con gli occhi che io ho solo immaginato. Era il mio pensiero. L’uomo mi ha ordinato di sedermi davanti a lui, ai piedi della barca e ha detto “Io sono il tuo pensiero”. Io l’ho abbracciato anche se non lo conoscevo e poi abbiamo deciso di camminare insieme, ma non uno di fianco all’altra. Abbiamo deciso che lui avrebbe camminato davanti a me per aprirmi la strada e proteggermi e io l’avrei seguito ad occhi chiusi. Quello che vedevo. Poi dopo, quando ho chiuso gli occhi e non ho più visto, ho deciso che mi sarei fidata per sempre delle orme del mio Pensiero.

Come fossimo nel castello dei destini incrociati

9 Comments »

ottobre 7th, 2008 Posted 17:52

« Ormai quando si parla con qualcuno è difficile farsi ascoltare. Gli occhi della persona che hai di fronte spesso sembrano un buco nero. Anche un cretino capirebbe che il cervello, nel retrobottega, sta lavorando per conto suo. La maggior parte dei neuroni pensa a qualcosa di brillante che il proprietario vorrebbe dire, altri alle cose che deve fare, acquistare, vivere. Sono conversazioni allo specchio. Mute come quelle della locanda di Calvino, e senza neanche i tarocchi. E ciascuno, in questi disperati soliloqui, finisce col parlare di sè. L’altro non ascolta e dunque, in definitiva, parla di sè da solo. Miliardi di io bonsai vagano senza meta, cani perduti senza collare. Almeno io ho fatto un passo avanti. Parlo davvero con me stesso. E mi rispondo ».

Tratto dal romanzo « La scoperta dell’alba » di Walter Veltroni.

Tags: , ,
Posted in Senza categoria